* LA BICICLETTA DI LEONARDO *
(Testo di Loris Rambelli)

Finora considerato, più che altro, una curiosità bibliografica, il romanzo poliziesco di Carlo De Mattia, Un mistero ossessionante (come recita il frontespizio, a differenza della copertina), apparso nella "Collana di Autori Italiani e Stranieri", Edizioni La Prora di Milano, 1931, meriterebbe, forse, di essere riletto.
Un motivo immediato di interesse scaturisce intanto dalla data di pubblicazione: ottobre 1931, vale a dire pochi mesi dopo Il sette bello di Alessandro Varaldo, che era uscito in marzo, primo romanzo italiano a figurare nei "Libri Gialli" di Mondadori, e che Mondadori, naturalmente, annunciò come il primo romanzo poliziesco italiano.

E ancora nel dicembre dello stesso anno, De Mattia compare sul quindicinale "I Misteri Polizieschi" con un racconto di ambientazione storica, intitolato La tabacchiera di re Luigi Filippo, di cui è protagonista l’ex galeotto divenuto capo della Brigata di Sicurezza della Polizia di Parigi, Eugène François Vidocq (1775-1857), che smaschera brillantemente un ladro di documenti segreti (non saprei dire se l’episodio sia desunto dalle famose Memorie di Vidocq pubblicate nel 1828. Vattelapesca... Ad ogni modo, è abbastanza evidente il richiamo alla Lettera rubata di Poe).
Il testo è corredato da due vignette in bianco e nero, una delle quali, quella che raffigura Vidocq, è firmata dall’autore con la sigla "C.DeM.".


De Mattia, sulla cui opera si vedano le Integrazioni (1995) al Dizionario Bibliografico del giallo a cura di Roberto Pirani, Monica Mare e Maria Grazia De Antoni, si è dedicato prevalentemente ai romanzi d’avventure, magari con sfumatute gialle, e soprattutto indirizzati ai ragazzi. Ma che Un mistero ossessionante sia un poliziesco, e italiano, è fuori di dubbio. Anzi, in tempi in cui si parlava di giallo autarchico, questo romanzo non poteva essere più autarchico, "fatto in casa" com’è, e nello stesso tempo più universale, con l’entrata in scena di Leonardo da Vinci che, attraverso i secoli, sembra dare una mano a Poe nella soluzione del mistero, come vedremo.
La vicenda si svolge in Lombardia, precisamente nella Brianza, alla fine degli anni Venti.
Fra l’altro la descrizione di una partita di calcio serve a meglio collocarlo, con una nota di colore, in quell’epoca. (Uno degli aspetti più curiosi del romanzo poliziesco è proprio la documentazione dell’attualità e del costume, volontaria o involontaria che sia.)
Il delitto non è cruento. In sintonia coi tempi. O, se si vuole, con la sensibilità latina: i primi giallisti italiani pubblicati da Mondadori, infatti, Varaldo, De Stefani, Lanocita, Comez, rifuggono dallo spargimento di sangue. Ne consegue che il reato più frequente è il furto. Come nel romanzo di De Mattia: un furto di gioielli.
Gli investigatori sono un maresciallo dei Regi Carabinieri di origine sarda; un commissario di Pubblica Sicurezza della questura di Milano; un investigatore privato, certo Molinari, milanese (che, per non essere da meno rispetto al detective per eccellenza della letteratura poliziesca, si sdraia sul pavimento alla ricerca di indizi materiali con la lente in mano); e infine un ragazzino che, suggerendo agli inquirenti ufficiali come si sarebbe comportato in frangenti analoghi il grande Sherlock Holmes, finisce per metterli sulla strada giusta.
«E bravo De Mattia!» mi diceva ieri l'altro Tiziano Agnelli «Ha reinterpretato il versetto biblico e un bambino li guiderà!»
In sostanza, un campionario di investigatori italiani (un po’ scalcagnati, ma forse per questo ancor più "italiani").
Si aggiunga che il caso poliziesco rientra nella tipologia classica detta "mistero della camera chiusa" che deriva direttamente da Poe.
Come ha fatto il ladro a raggiungere la sommità di una torre alta venti metri, la cui pareti lisce non offrono alcun appiglio, le cui porte sono blindate con un sistema complicatissimo di serrature che le rende inviolabili?
Di qui, la trovata più sorprendente. Il ladro, per salire sulla torre, ha usato una macchina leonardesca. Cioè, sulle tracce dei disegni lasciati da Leonardo da Vinci, ha realizzato uno di quei velivoli che l’artista-scienziato progettava durante gli studi sul volo e che, magari, qualche incauto suo allievo sperimentava sulle pendici dei colli fiesolani a rischio di rompersi l’osso del collo.

"Della bicicletta aveva il telaio, le ruote, ma sul manubrio partivano, allargandosi, due ordini di ali corte, certamente fisse. Davanti alla ruota anteriore, imperniata al tubo superiore del telaio, si notava una grande elica di legno, che, in proporzioni minori, si ripeteva dietro la ruota posteriore. Sotto al sellino, poi, erano fermate altre due ali membranose, simili alle ali di un pipistrello, evidentemente mobili e fornite di cinghie complicate, pronte per essere affibbiate alla persona.
Velocità massima ottanta chilometri all’ora, a un’altezza variante dai cento ai duecento metri, potendo calare anche a piombo, come un vero uccello di rapina.
Le ali posteriori si potevano facilmente ripiegare e staccare, le eliche pure [...] ed eccola trasformata in una bicicletta comune: bastava spingere i soliti pedali.
"
E il volatore? Uno spettacolo, anche lui, mentre decolla dalla pista di lancio e poi s’innalza nel cielo.
"Prima di salire sul suo apparecchio, si era tolto lo spolverino che indossava rimanendo nel succinto costume da corridore ciclista, calzoncini corti e una maglia pesante di lana nera; sul petto spiccava uno smagliante striscione tricolore... Era curvo sul manubrio, nella classica posa d’un corridore di classe e la sua pedalata era energica, elastica, come se egli si fosse trovato su una pista di terra."
Servendosi di questo marchingegno, il ladro, una volta compiuto il furto, può velocemente trasferirsi in quel di Bergamo per consegnare la refurtiva a un ricettatore e poi, trasformata la macchina volante in bicicletta terrestre, ritornarsene bel bello in Brianza, senza destare alcun sospetto.
E si noti che nel 1931 non era ancora stato scoperto, nel Codice Atlantico, il noto e controverso disegno della cosiddetta "bicicletta", che si trovava sul verso di un foglio incollato a una pagina del raccoglitore cinquecentesco, sottoposto a restauro nel 1966.
In epoca recente, c’è voluta la penna, capace di ben altri voli, di Paco Ignacio Taibo II per rievocare il genio del Rinascimento italiano in uno stravagante, acrobatico romanzo-fiume ambientato a Città del Messico, La bicicletta di Leonardo, appunto, cui fu assegnato nel 1994 il Premio internazionale Dashiell Hammett per il miglior poliziesco in lingua spagnola.
Qui incontriamo un Leonardo da Vinci che "gironzola con la sua bicicletta" (sua, cioè da lui inventata) nel Parco México, "contemplando gli uccellini sporchi, i passeri inquinati che bevono nella fontana", e giù per l’Avenida Nuevo León, "schivando travestiti e venditori di rose notturni", raggiunge la Colonia Del Valle, si beve una mezza dozzina di birre col suo amico scrittore e investigatore José Daniel Fierro e, di ritorno dalle sue peregrinazioni, incatena la bicicletta a un lampione, "sotto la grande notte stellata dei narratori di storie".

2 Febbraio 2021