* IL MOSTRO BAMBINO *
(Testo di Lino Bologna)

Sarzana (provincia di La Spezia), lunedì 4 gennaio 1937.
È un giorno cupo e freddo. Il cielo è tormentato da nuvole dense e minacciose, ma non piove. Al Collegio delle Missioni, dopo le vacanze natalizie, riprende la vita di sempre.


Il Collegio delle Missioni all'epoca dei fatti

Il rettore, don Umberto Bernardelli, è nel suo studio, al terzo piano. Ha appena finito di sistemare dei documenti e ora sta pregando, col volto fra le mani. Sono le diciotto e diciotto.


Don Umberto Bernardelli

Improvvisamente, nella stanza fa irruzione un uomo. Ha un largo cappello calato sugli occhi e il viso nascosto da una una sciarpa bianca e azzurra. Non parla. Si avvicina al religioso e gli punta contro una pistola "Glisenti" calibro 9.


Pistola Glisenti Mod. 1910

Il sacerdote si alza di scatto. Pensa di aver a che fare con un rapinatore. Prende allora una busta piena di soldi che tiene in un cassetto della scrivania e la porge allo sconosciuto.
Lui l'afferra, ma subito dopo, spara quattro colpi in rapida successione.
Don Bernardelli, si accascia sul pavimento. Ha l'aorta squarciata e muore quasi subito.
L'assassino infila la busta col denaro in tasca e lascia la stanza. Sul pianerottolo incontra tre studenti e, senza esitazioni, spara ancora. Vari proiettili sfiorano i ragazzi e si conficcano nel muro, ma due vanno a segno. E Lionello Bassani, di anni 16, rotola sul pavimento, ferito gravemente. Marco Oleggini, di 11 anni e Walfredo Collini di 16, invece, rimangono fortunatamente illesi.
L'assassino, intanto, prosegue la sua fuga giù per le scale. Gli spari, però, sono uditi anche dall'anziano portinaio, don Andrea Bruno, che, per capire cosa sta accadendo, lascia la sua postazione, raggiunge le scale e inizia a salire faticosamente le prime rampe. Ma, quasi subito, incontra un uomo che, quando gli è di fianco, gli spara a bruciapelo.
Don Bruno si accascia sui gradini con un rene e un polmone lesionati.
L'assassino, intanto, guadagna l'uscita, si libera di sciarpa e cappello e si dilegua.
Le indagini iniziano subito. Don Andrea Bruno, agonizzante, balbetta frasi confuse. Dice di aver riconosciuto l'assassino, ma di non ricordarne il nome. Gli investigatori cercano di far tornare la memoria all'anziano prete scandendo nomi e cognomi, ma senza risultato. Don Andrea muore tre ore dopo.
Si cerca a questo punto di scavare nella vita privata di don Bernardelli. Si vuole capire se c'è qualcuno che può avere validi motivi per ucciderlo. Addirittura si pensa a qualche marito geloso. Non mancano, infatti, pettegolezzi che dipingono il prete come un integerrimo e apprezzato uomo di Chiesa di giorno e un intraprendente dongiovanni la sera. Ma niente. Tali dicerie vengono presto bollate come malignità dirette a screditare il Collegio e, di conseguenza, tutto il clero locale.
Gli inquirenti sono costretti, così, a imboccare altre vie. La loro attenzione si concentra allora su due persone, le ultime incontrate da don Bernardelli. Una di queste è il parroco di Castelnuovo Magra, don Mario Andolfatto, che con il rettore del collegio ha non ben precisati rapporti d'affari. Ma la sua estraneità ai fatti viene accertata quasi subito: molti parrocchiani, infatti, sono pronti a giurare di averlo visto in paese all'ora dei delitti.
L'altra persona che ha avuto contatti con don Bernardelli poco prima che morisse è uno studente fuori corso di ingegneria. È iscritto all'Università di Pisa, ma, è già stato anche a quelle di Genova e di Milano e sempre con scarsi risultati. Si chiama Vincenzo Montepagani e ha 34 anni. È orfano e ha in programma di sposarsi; quindi, ha tanto bisogno di denaro. Per questo, qualche tempo prima si era rivolto a don Bernardelli per un aiuto. Il rettore, impietositosi, gli aveva consentito di impartire lezioni pomeridiane di matematica agli studenti del collegio che ne avevano necessità. Ma l'uomo non era stato all'altezza del compito e, per preparare tali lezioni, aveva chiesto aiuto a una sua amica insegnante.
Don Bernardelli, scopertolo, lo umilia, rimproverandolo aspramente.
Inevitabilmente tra i due si era creato un rapporto ostile. E questa circostanza, unita al fatto che la sommaria descrizione dell'assassino fatta da don Bruno prima di morire richiamava vagamente i connotati del giovane, portano gli investigatori ad accusare formalmente Vincenzo Montepagani del duplice omicidio e del ferimento dello studente, oltre che del furto della busta contenente denaro.
L'uomo grida la sua innocenza, giura che all'ora dei delitti era in casa. Ma nessuno può confermare le sue parole. Non ha testimoni, infatti. E poi, considerando le maldicenze che stanno infangando la memoria del defunto rettore e, di conseguenza, il buon nome del collegio, è interesse di tutti trovare un verosimile assassino e chiudere al più presto la vicenda.
Vincenzo Montepagani finisce, così, in galera. Il processo inizia 18 mesi dopo l'arresto. L'uomo è difeso da un principe del foro, l'avvocato Tamburi di Sarzana.
Egli è convinto che il suo assistito sia innocente e le arringhe che fa in sua difesa sono appassionate.
A favore dell'imputato, inoltre, spuntano dei testimoni. E così, il 3 giugno 1938, dopo dieci giorni di acceso dibattimento, Vincenzo Montepagani viene riconosciuto innocente per non aver commesso i fatti. E i tanti cittadini che hanno assistito al processo convinti della sua innocenza, dopo la sentenza di assoluzione si caricano il Montepagani sulle spalle e lo portano in trionfo fino alla cattedrale, dove l'uomo vuole andare per ringraziare il Signore della grazia ricevuta.
A questo punto, interviene anche Mussolini che, con un ordine perentorio, fa risarcire Vincenzo Montepagani per ingiusta detenzione con un assegno di 25.000 lire. E così, il delicato caso dei delitti al Collegio delle Missioni resta aperto. Il feroce assassino rimane in libertà e molti temono che possa uccidere ancora. Purtroppo, non tarderà a farlo.
È il 20 agosto 1938. Non sono ancora passati due mesi dalla scarcerazione di Vincenzo Montepagani, quando, in località Ghiaia, sulla strada per Falcinello, nei pressi del cimitero di Sarzana, vengono rinvenuti i corpi senza vita di due uomini. Uno è il barbiere del Collegio delle Missioni Livio Delfini, di anni 20, l'altro è il tassista che lo trasportava, Bruno Veneziani di anni 35.
L'auto su cui viaggiavano i due uomini viene trovata rovesciata in un torrente, poco lontano.
Partono subito le indagini. Del caso si occupa il commissario Paolo Cozzi, un uomo scrupoloso e attento.


Il Commissario Paolo Cozzi

Pur senza trascurare altre piste, egli valuta anche la possibilità che il Delfini e il Veneziani siano stati uccisi dalla stessa persona che già un anno e mezzo prima aveva sparato ai due religiosi e allo studente all'interno del Collegio delle Missioni. Purtroppo, però, le indagini si trascinano per mesi senza apprezzabili risultati. Vengono alla luce solo tradimenti coniugali, rancori familiari e altre piccole tresche e inconfessabili segreti che animano ogni piccola città di provincia. Nulla di più. E tra congetture e dicerie, passa un altro anno e mezzo.
È il 29 dicembre e il 1939 sta per finire. La gente si prepara a festeggiare l'arrivo del nuovo anno, cercando di evitare, almeno per qualche giorno, ogni pensiero che possa rattristare. Ma a far calare su tutta la Bassa Valle una cappa di orrore e sgomento arriva all'improvviso una tragica notizia. All'interno dell'Ufficio del Registro e delle Ipoteche viene trovato cadavere Giuseppe Bernardini, il custode. È riverso sul pavimento, in un lago di sangue, dilaniato da ripetuti colpi di ascia.
Il commissario Cozzi si precipita sul luogo del delitto e inizia subito i rilievi. Nota che sul manico dell'ascia, che è ancora conficcata nel cranio dell'anziano custode, ci sono residui di una sostanza appiccicosa. Nota anche che la cassaforte è aperta e che è stata ripulita di tutto ciò che conteneva. Ma non ci sono segni di scasso. Chi l'ha aperta, di sicuro, ha usato una chiave. E l'unico che ha accesso alla chiave della cassaforte è il direttore dell'Ufficio, il dottor Guido Vizzardelli.
Tuttavia, nessuno può sospettare di lui. A detta di coloro che lo conoscono, è un uomo onesto, corretto, molto apprezzato in città. Sicuramente incapace di commettere un omicidio tanto efferato. Ma il commissario ha il dovere di indagare e, per prima cosa, si fa consegnare la chiave. Subito nota che anche su questa ci sono tracce di una sostanza che appiccica come sul manico dell'ascia. Deduce quindi che sia la chiave sia l'ascia siano state maneggiate dalla stessa persona.
Il commissario, a questo punto, non può evitare di perquisire l'abitazione del dottor Vizzardelli.
In cantina, su uno scaffale, ci sono delle bottiglie che contengono residui di una sostanza appiccicosa. Vengono chiesti chiarimenti al padrone di casa il quale, timidamente, riferisce che tali bottiglie appartengono al figlio, Giorgio William, il quale, da un po' di tempo si diletta a distillare liquori.
Il ragazzo viene, allora, convocato e interrogato.


Il giovane Giorgio William Vizzardelli

All'inizio dice di non sapere di cosa si stia parlando, ma poco dopo confessa. Il 4 gennaio 1937, quando aveva appena 14 anni, aveva ucciso lui don Umberto Bernardelli. Per vendetta, dice. Alcuni giorni prima era stato punito da questi per atti vandalici commessi in un'aula della scuola. I colpi sparati contro i tre studenti incontrati nel corridoio, sempre secondo la sua deposizione, erano serviti solo per aprirsi un varco di fuga. L'uccisione di don Andrea Bruno, invece, era stata necessaria. Nel scendere le scale la sciarpa che gli copriva il volto si era abbassata e l'anziano canonico lo aveva riconosciuto. Anche Livio Delfini, il giovane barbiere del collegio, era stato ucciso per necessità. Diceva di sapere chi era l'assassino e, per tacere, gli chiedeva dei soldi. Il Vizzardelli fingendo, allora, di accettare il ricatto, aveva fatto credere al giovane barbiere di volergli consegnare il denaro richiesto e gli aveva dato appuntamento in quel luogo isolato. Ma quando il barbiere, usando un taxi, era giunto sul posto, anziché i soldi aveva ricevuto una scarica di proiettili. Il tassista, avendo assistito alla mattanza, sempre secondo il racconto del ragazzo, non poteva continuare a vivere. Sarebbe stato un pericoloso testimone. Anche lui aveva ricevuto, così, la sua dose di piombo.
Le motivazioni che avevano spinto poi Giorgio William Vizzardelli a uccidere Giuseppe Bernardini, il custode dell'ufficio del Registro, erano state piuttosto banali: l'uomo lo aveva sorpreso mentre ripuliva la cassaforte e lo aveva semplicemente sgridato.
Nel gennaio del 1941 Giorgio William Vizzardelli viene condannato per cinque omicidi, per tentato omicidio plurimo e per furto ripetuto e aggravato.
Il fatto di essere ancora minorenne gli evita la pena di morte, ma non lo salva dall'ergastolo. Il ragazzo, così, viene chiuso in una cella.
Passa il tempo a leggere, a scrivere, a studiare, a fare piccoli lavori. Riesce anche a diplomarsi. Si comporta, in pratica, da detenuto modello. E 27 anni più tardi, cioè nel 1968, il presidente della Repubblica Saragat gli concede la grazia.


Giorgio William Vizzardelli all'epoca della sua scarcerazione

Giorgio William Vizzardelli torna, così, a essere un uomo libero e va a vivere con la sorella. Ha 46 anni e ancora tanto tempo davanti. Ma non ne approfitta e continua a vivere da recluso nella sua camera. Non sa adattarsi alla nuova vita. È taciturno, chiuso, sempre triste e spento.
Il mondo è molto cambiato da quando era studente al Collegio delle Missioni.
I terribili delitti commessi sono per lui ora solo dei ricordi confusi e, ad uno ad uno negli anni, tutti i suoi sogni folli si sono infranti.
Cinque anni dopo e cioè nell'estate del 1973, Giorgio William Wizzardelli ha un rigurgito di follia omicida e torna ad uccidere. Ma questa volta uccide sé stesso, tagliandosi la gola con un coltello da cucina.
Il suo cadavere viene trovato nel bagno. Per riguardo verso la sorella, che lo ospitava, evita di imbrattare di sangue le sue ciabatte, spostandole in un luogo sicuro. E per non sporcare il pavimento, si taglia la gola tenendo la testa reclinata sul water.
Finisce così la storia di Giorgio William Wizzardelli, l'assassino che negli annali della criminologia è registrato come "Il mostro di Sarzana". Qualche rivista specializzata continua tuttavia a definirlo "Il mostro bambino". Quel ragazzo, infatti, detiene ancora oggi l'agghiacciante titolo che si era conquistato all'epoca dei delitti, quello del pluriomicida italiano più giovane di tutti i tempi.